giovedì 31 marzo 2011

Cosa sognano i pesci rossi

Il titolo del post è il titolo di un libro che ho letto qualche anno fa di cui non sto qui a raccontarvi la trama perché sarebbe troppo lunga. Mi sembrava però adatto a ciò che vado a scrivere.
Vorrei parlarvi di bambini, non di bambini qualunque, ma di bambini che nonostante la loro piccola età, hanno già sofferto tantissimo. Li vedo arrivare ogni volta con il sorriso sulle labbra, tra le voci e le risate, con quella voglia di giocare tipica dei loro anni, ma sono troppo innocenti per riuscire a nascondere la tristezza e il dolore che hanno nel cuore. Per questo ogni tanto capita, come oggi per esempio, che uno di loro scoppi a piangere perché non vede suo padre da un anno, o perché non lo ha mai conosciuto, o perché sua madre è andata via di casa in silenzio una notte e non è più tornata.
Sono storie assurde che io non credevo potessero essere vere, e se non fossero dei bambini a raccontarmele, io non ci crederei. Ma come dice mio padre, la realtà supera sempre la fantasia. E mi sono chiesta: cosa pensano questi bambini, cosa sognano, cosa sperano, cosa si aspettano dal loro futuro? Io alla loro età sognavo di fare l'archeologa, pur non sapendo assolutamente cosa fosse. La maggior parte di loro spera di tornare nel proprio paese, altri si accontenterebbero che i genitori trovassero un lavoro qui, per altri basta la promessa di ricevere un cioccolatino la settimana prossima. Allora mi sono chiesta cosa pensano di me. Mi chiedono spesso dell'università, perché non sanno minimamente cosa sia e non riescono a credere che qui si studia fino alla mia età e anche oltre. Mi chiedono come faccio a vivere lontana da casa senza un lavoro e come sia possibile che casa mia si raggiunga con sole tre ore di treno e non serva prendere un aereo. E allora torno a domandarmi: ma questi bambini cosa pensano di me, di noi, degli adulti? Cosa pensano del mondo, cosa pensano quando vedono quelle scene di guerra così tanto distanti da noi ma così tanto vicine alla loro vita precedente? Cosa pensano quei bambini dagli occhi sognanti ma ancora lucidi, della loro nuova vita in questo paese? Cosa possono pensare di me che non ho mai risposte soddisfacenti, che non ho storie abbastanza interessanti da raccontare loro, che riesco solo a regalare un sorriso perché non ho molto altro da dare?
Non so perché, ma oggi, mentre ascoltavo impotente quella bambina che tra i singhiozzi mi parlava di quanto le manca suo papà, mentre la tenevo stretta senza riuscire a dire niente quando mi spiegava che la madre non vuole che lei veda sua padre, mentre una piccola lacrima mi rigava il volto, un pensiero mi passava per la testa: ma questi bambini cosa pensano di me?

sabato 19 marzo 2011

Primavera

Per me la primavera è un ricordo, e questo ricordo è Roma. Se penso alla primavera io penso a Roma.
Oggi è una bellissima giornata di primavera. Forse la temperatura è ancora troppo bassa, ma c'è il sole e il sole per me vuol dire primavera. Esco di casa e mi lascio accarezzare il viso dalla mano sottile del vento e chiudo gli occhi rivolta verso il sole, sperando che entri nel mio cuore. Lascio che il profumo dei mandorli appena fioriti mi inebri fino a farmi sentire leggera. Mai come ora, ho bisogno che sia di nuovo primavera, dentro e fuori di me. Quando penso alla primavera però, soprattutto la domenica pomeriggio, mi viene sempre in mente Roma. Sì Roma, quella fantastica città che penso sempre baciata dal sole. E' colpa, o merito, di un ricordo della mia adolescenza, quando mio padre portò me e mia sorella allo stadio, quando ancora era possibile portare i bambini allo stadio. E' uno dei ricordi miei migliori. Una delle prime volte in cui ho visto, e scoperto, Roma. La primavera è quindi per me  il profumo degli alberi in fiore dei grandi viali, è il colore verde del prato del campo, sono i raggi del sole che entrano nello stadio e illuminano gli spalti gremiti di gente, quando ancora la gente la domenica pomeriggio amava andare allo stadio. Della partita sinceramente ricordo poco: Roma-Parma 3-0, quando ancora al Parma giocava Cannavaro, quando ancora Montella segnava ed esultava facendo l'aeroplanino, quando ancora si potevano portare striscioni e scritte per i propri campioni. E ricordo i cori, la gente che esultava, incitava, tratteneva il respiro e ricominciava a cantare. La giornata era calda ma non ancora da t-shirt a maniche corte. Avevo il cappellino nero con la lupa giallo-rossa e la maglietta di Totti, troppo larga per me, arrivava alle ginocchia, ma troppo importante per non indossarla. Era appena iniziata la primavera, di quell'anno ormai lontano e della mia vita. Il sole sul viso era carico di speranze, i miei occhi brillavano carichi di aspettative. E oggi, con occhi nuovi e un po' di aspettative in meno, continuo a guardare il sole e a sperare. Spero che il mio cuore arido ritrovi il calore, riesca a perdonarmi e, come torna ogni anno puntuale la primavera, anche lui ritorni finalmente ad amare.
Per me la primavera è un ricordo, e questo ricordo è Roma. Se penso alla primavera io penso a Roma.

venerdì 11 marzo 2011

Non serve dire altro

Mai nessuna meraviglia potrà più toccarmi
Mai nessuna comprensione potrà mai guarirmi
Mai nessuna punizione sarà più severa
Mai nessuna condizione sarà mai più vera
Se il mio cuore avesse fiato correrebbe ancora
E invece resta lacerato dentro una tagliola
Quale grado di stupore potrei superare
Quale tipo di dolore potrei consumare
Non ho più te, sono sola al mondo
Non ho più te, buio più profondo
Non ho più te, sono sola al mondo
Non ho più te, buio più profondo
È un altare di ricordi questa stanza nera
Sacro luogo di promesse per la vita intera
Quanto nitido rancore dovrò cancellare
Quale livido silenzio dovrò sopportare
Non ho più te, sono sola al mondo
Non ho più te, buio più profondo
Non ho più te, sono sola al mondo
Non ho più te, buio più profondo
Non ho più te, sono fragile perché
Non ho più te, sono fragile perché
Non ho più te
Sono fragile perché sono un nido caduto
Sono fragile perché non ho più te
Sono fragile perché sono seta nel fuoco
Sono fragile perché non ho più te
Sono fragile perché sono un nido caduto
Sono fragile perché non ho più te
Sono fragile perché sono seta nel fuoco
Sono fragile perché non ho più te
Non ho più te, sono sola al mondo
Non ho più te, buio più profondo
Non ho più te, sono sola al mondo
Non ho più te, buio più profondo
Non ho più te, sono fragile perché
Non ho più te, sono fragile perché
Non ho più te




sabato 5 marzo 2011

Bruxelles

Bruxelles è l'opposto di quello che avevo immaginato. Mi aspettavo una città discreta, non molto grande, fredda, grigia e circoscritta alle sedi delle Istituzioni europee. Ho trovato una città dinamica, viva, brulicante di gente di ogni razza e di ogni età, traboccante di opportunità, intrisa di arte, immersa nel passato e tesa verso il futuro. Merito, o colpa, della presenza del sole sopra di noi, Bruxelles ha tutte le carte per essere una città davvero solare. La nostra visita è stata breve ma intensa. E' bastato un giorno per farmi innamorare di questa capitale del nord, completamente rapita dalla vivacità di una città così lontana dall'allegra superficialità italiana. Ero partita con l'idea di fare una gita di due giorni, senza troppe aspettative. Ma Bruxelles, con i suoi palazzi reali barocchi e opulenti e i nuovi edifici in vetro e acciaio che ospitano  "l'Europa", mi ha completamente folgorata, affascinata e un po' disorientata, lasciandomi in bocca la curiosità di scoprire ogni vicolo del suo cuore pulsante. Quando vaghi nelle immense stanze della Commissione europea, dal primo al tredicesimo piano, hai l'impressione che tutte quelle persone stiano lavorando anche per te, che lì davvero qualcuno sta cercando di fare qualcosa per rendere migliore la vita di tutti noi, nel rispetto delle diversità delle culture europee. Quando invece passeggi disorientato sull'acciottolato delle strade del centro, ammaliato dal risplendere dell'oro delle chiese e dei palazzi sotto la luce del sole, risucchiato dal vortice delle voci che parlano in decine di lingue diverse, senti che anche tu, nonostante così piccolo e insignificante, potrai costruire qualcosa di grande e trovare un ruolo in quella fantastica città. Perché Bruxelles mi ha dato l'idea di perdonare tutto, perfino il nostro essere così esageratamente italiani. E' pronta ad allargare le sue braccia, ad accoglierti, a prendere il tuo bagaglio di insicurezze, colpe, aspettative, segreti e speranze, e a farti partecipe di quelli degli altri; è pronta a consolarti di tutte le tue pene e i tuoi dolori e a darti gratuitamente l'opportunità di dimostrare che non sei peggiore di altri, ma che anche tu invece potrai un giorno contribuire a rendere il mondo un posto migliore. E allora prendo la mia valigia, piena di gratitudine, di entusiasmo e confusione, mi volto a guardare il sole che tramonta sul Parlamento europeo e saluto Bruxelles, promettendole di tornare presto a vivere con lei.